mercoledì 10 gennaio 2007

Il punto sul caso Welby


Pubblichiamo, traendolo dall'Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, un articolo di Francesco D'Agostino sul caso Welby. Per fare definitivamente chiarezza.

Osservatore Romano 29.12.2006

PIETA' e CHIAREZZA

Francesco D’Agostino

Pietà e chiarezza. La pietà, la massima pietà, è richiesta quando ci si concentra su di un caso umano come quello di Piergiorgio Welby, un caso straziante, ancor più che doloroso. Chiarezza, la massima chiarezza, è quella invece richiesta da un caso politico, come lo stesso Welby ha voluto che si considerasse il suo caso. Alla pietà si addicono il silenzio, la meditazione e soprattutto la preghiera. La chiarezza esige invece capacità di analisi e di discernimento, freddezza di ragionamento e soprattutto una profonda onestà intellettuale. Ed esige altresì che la pietà, valore umano profondo e prezioso, venga tenuta separata dall’emotività, dinamica psicologica tanto coinvolgente, quanto in genere effimera e povera di contenuti. Il dibattito pubblico, attivato dalla lettera che Piergiorgio Welby ha inviato il 22 settembre al Presidente Napoletano, chiedendo che gli fosse concessa una “morte dolce”, e che per settimane e settimane ha occupato gli spazi massmediatici, e non solo in Italia, ha mescolato assieme temi, istanze e sentimenti diversi, con il fine evidente di alterare l’orientamento profondamente e istintivamente ostile all’eutanasia dominante nel nostro paese. E’ presto per poter dire quale efficacia abbia avuto questa campagna mediatica. Ma fin da ora si può e si deve dire che è stata condotta strumentalizzando indebitamente un caso terribile e pietoso. Puntualizziamo alcuni termini del problema, che comunque, come si vedrà, restano fortemente interconnessi.

La figura, la personalità, le sofferenze, l’immagine stessa di Piergiorgio Welby sono state strumentalizzate, sia pure col suo consenso e forse anche su sua stessa iniziativa (ma l’auto-strumentalizzazione è pur sempre una strumentalizzazione), per far giungere all’opinione pubblica un falso messaggio, obiettivamente necrofilo, e cioè che la morte è l’unica risposta possibile a malattie degenerative terribilmente invalidanti come quella da cui egli era afflitto e più in generale a tutte le malattie giunte alla fase terminale. Il messaggio autentico è esattamente l’opposto: la vera risposta a tutte le situazioni tragiche di malattie invalidanti croniche e di malattie di fine vita non sta nell’abbandono terapeutico (di cui l’eutanasia è la forma estrema), ma nella vicinanza calda e compassionevole del terapeuta al paziente, intesa come un vero e proprio diritto, che rientra nel più generale diritto alla salute di cui siamo tutti titolari.

Si sono intenzionalmente e indebitamente confuse le medicine palliative, vera e propria gloria della medicina più recente, chiamate a dare e capaci di dare, ad ogni malato, la speranza concreta di poter convivere con la propria malattia, anche se terminale, in modo dignitoso, con pratiche di sedazione robusta e irreversibile, finalizzate evidentemente a sopprimere il malato, più che a non farlo soffrire.

Si sono denunciate, demonizzandole, le più recenti e straordinarie tecnologie biomediche, come vere e proprie forme di manipolazione violenta e innaturale della vita, minimizzandone indebitamente la straordinaria valenza terapeutica, che ha loro consentito di salvare tante vite umane e dimenticando così di ricordare che la manipolazione non va condannata perché innaturale (se così fosse sarebbe da condannare perfino la cottura dei cibi), ma solo quando sia non coerente col bene umano.

Si è insistito nel sottolineare come rivestisse carattere di accanimento l’uso di macchinari per la respirazione forzata ai quali Welby doveva la propria sopravvivenza. Che di accanimento non si trattasse, ma solo di una forma estrema e benefica di terapia, risulta non solo da un parere autorevole formulato dal Consiglio Superiore di Sanità, ma dall’elementare riflessione (condivisa da tutti i bioeticisti) secondo la quale, perché accanimento si dia, è indispensabile un’obiettiva sproporzione tra il trattamento cui il malato è sottoposto e la finalità che il medico vuole conseguire col trattamento in questione: nel caso di Welby il respiratore meccanico aveva come finalità non quella di consentirgli una mera sopravvivenza biologica, ma quella di rendergli possibile una sopravvivenza autenticamente e profondamente umana, che gli ha permesso oltre tutto di esercitare l’ammirevole ruolo di un vero e proprio leader politico (come i suoi stessi compagni di partito hanno instancabilmente ricordato).

Si è indotta nella gente l’erronea convinzione che uno dei doveri fondamentali dei medici sia quello di aiutare i loro pazienti a morire, evitando accuratamente di ricordare come il giuramento ippocratico (prima ancora che una visione religiosa della vita) impegna il medico a lottare sempre e soltanto per la vita e non a operare per la morte.

Si è esaltato il principio di autodeterminazione del paziente, come se legittimasse qualunque pretesa del malato nei confronti del medico, fino all’estrema pretesa eutanasica, quando questo principio, fondamentale per la corretta attribuzione della piena responsabilità morale, acquista in bioetica una valenza ben più ristretta, riducendosi in buona sostanza al dovere di acquisire, per legittimare qualsiasi atto medico, il consenso pienamente informato, da parte dei pazienti se competenti, o se incompetenti dei loro rappresentanti legali.

Si è fatto riferimento al caso Welby per stigmatizzare la mancata approvazione, da parte del Parlamento, di una legge che legalizzasse il testamento biologico. E’ evidente che una normativa sul testamento biologico (ma io preferirei che si usasse l’espressione Dichiarazioni anticipate di trattamento, come ha fatto il Comitato Nazionale per la Bioetica), concernendo situazioni in cui il paziente ha perduto la capacità di intendere e di volere, non ha nulla a che fare col caso Welby, che ha mantenuto fino alla fine una piena competenza. La confusione può nascere per

Si sono denunciate inesistenti lacune nel nostro ordinamento, che, se davvero esistessero, andrebbero al più presto colmate, quando invece il nostro sistema penale, dal punto di vista della questione che ci interessa, è assolutamente completo e chiaro. Se l’eutanasia non ha alcun riconoscimento come fattispecie penale, non è per dimenticanza, ma per chiara scelta del nostro legislatore (che infatti ha previsto che chi uccida per pietà possa invocare l’attenuante comune prevista dall’art. 621 del codice penale, quella cioè di aver agito “per motivi di particolare valore morale”). Proibiti, altresì, con sanzioni più lievi di quelle previste per l’omicidio volontario, sia l’omicidio del consenziente che l’istigazione e l’aiuto al suicidio. Insistere nell’ipotizzare lacune normative equivale ad auspicare che l’eutanasia venga depenalizzata o addirittura legalizzata: è una pretesa forte, sulla quale si può ben aprire un legittimo dibattito etico e politico, ma che va esplicitamente sottoposta alla pubblica opinione e che non può essere fatta passare come una semplice richiesta di integrazione di un codice penale lacunoso.

Si è data una interpretazione esasperata di un fondamentale principio costituzionale (art. 322), quello per il quale “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Non c’è dubbio che, in base a questo principio, un malato possa rifiutare qualsiasi trattamento, anche salvavita, o possa comunque chiederne la sospensione. Il valore del principio sta nel porre un limite difficilmente superabile alla tentazione, ricorrente anche se in fondo inoffensiva, del paternalismo terapeutico, alla quale facilmente tendono a cedere tutti i sistemi in cui la sanità acquista una valenza pubblica ed è inevitabilmente “amministrata” in modo burocratico. Quel che è certo è che il legislatore costituente non ha introdotto questa norma come scorciatoia per l’eutanasia. Piergiorgio Welby aveva tutto il diritto di rifiutare (dopo essere stato compiutamente informato delle conseguenze della sua decisione) l’uso a suo carico del respiratore meccanico. Questo rifiuto non implicava, ovviamente, il venir meno del dovere del medico di praticare a suo favore –successivamente al distacco del respiratore- tutte quelle forme di palliazione e di sedazione che il medico stesso, in scienza e coscienza, avesse ritenuto necessarie. Cosa però sia avvenuto nella realtà, non è a tutt’oggi del tutto chiaro: non è chiaro, cioè, se la sedazione abbia preceduto il “distacco della spina” e se questa sedazione sia stata limitata alla finalità di non farlo soffrire o se invece non sia stata posta in essere per fargli perdere completamente e irreversibilmente la coscienza: in quest’ultimo caso l’aver qualificato questa pratica come “terapia del dolore” sarebbe stato non solo del tutto improprio, ma mistificante.

Si è infine voluto politicizzare il caso Welby (si ricordi l’appello al Capo dello Stato), come se questo tragico caso, come tutte le questioni altrettanto tragiche di cui la bioetica si occupa, possano davvero trovare nella politica e attraverso la politica la loro soluzione. Non è così e chi la pensa così mostra di aver capito ben poco della complessità della bioetica, che si pone tutta su di un piano metapolitico. La bioetica si è infatti imposta all’attenzione del mondo contemporaneo nel momento in cui la politica ha capito di essere inadeguata a gestire i problemi di salute, di vita e di morte attivati dallo sviluppo vorticoso della biomedicina contemporanea.

Concludo. Quello che davvero ci ha insegnato il casop Welby è che la bioetica ha una dimensione antropologica, in cui si sintetizzano questioni sociali e coesistenziali di tipo etico, religioso, simbolico, irriducibili alla logica degli interessi sociali, di cui essenzialmente la politica si fa carico. La prova di quanto detto si ha in quegli ordinamenti in cui la legalizzazione dell’ eutanasia volontaria, nel nome del rispetto che si dovrebbe avere nei confronti dei pazienti, qualora manifestassero una consapevole volontà di morire, ha prodotto come effetto l’attivazione di un controllo burocratico sulla fine della vita umana, che si è lentamente esteso fino a coinvolgere i malati psichiatrici, i malati anziani cronici e perfino (col c.d. protocollo di Groeningen) i neonati portatori di handicap. Non entriamo nel merito di quanto possano influire nella soppressione legale di tanti malati motivazioni politico-economiche (ma sappiamo che influiscono molto!). Limitiamoci a dire che la pietà che tutti dobbiamo avere per Pergiorgio Welby e per le sue sofferenze deve accompagnarsi alla pietà che è doveroso nutrire verso tanti altri malati, di estrema fragilità fisica e psichica, che hanno il diritto di aspettarsi dal sistema sanitario e da ciascuno di noi parole di vita e non di morte, di prossimità e non di abbandono, di speranza e non di disperazione necrofila.

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