martedì 22 gennaio 2008

Chesterton su Hilaire Belloc


Un'immagine giovanile di Hilaire Belloc


Segnalatoci gentilmente dall'Apota, mettiamo a disposizione di tutti un bellissimo brano di Chesterton, uscito su di una delle tante riviste alle quali collaborava, sul suo caro amico Hilaire Belloc.
Sa di amicizia e di belle cose.

Quando feci la conoscenza di Belloc egli stava dicendo all’amico che ci aveva presentati che si sentiva di cattivo umore. Ma il suo cattivo umore era ed è di gran lunga più loquace e vivace del buon umore di qualunque altra persona. Egli seguitò a parlare fino a notte inoltrata, e quando se ne andò aveva lasciato una traccia scintillante di cose buone. E dicendo cose buone (il che non corrisponde affatto ai semplici bons mots), ho già detto tutto quello che vi è da dire sul lato serio di un uomo che fra tutti quelli del mio tempo ha combattuto la più grande battaglia in difesa delle cose buone.
Il nostro incontro avvenne fra un piccolo giornalaio e un modesto ristorante di Soho; lui aveva braccia e tasche piene di giornali atei e di giornali nazionalisti francesi. Un cappello di paglia gli ombreggiava gli occhi che sono autentici occhi di marinaio, e dava rilievo al suo mento napoletano. Stava parlando di Re Giovanni, che, mi assicurò, non fu assolutamente (come spesso dicono) il miglior re che abbia regnato in Inghilterra. Tuttavia bisogna perdonargli qualche cosa, voglio dire perdonare a Re Giovanni, non a Belloc. “Era stato reggente”, disse Belloc con condiscendenza, “e in tutto il Medioevo non vi è alcun esempio di un Reggente abile”. Lì per lì non possedevo alcun bravo Reggente da opporre alla sua generalizzazione, e quando ci ripensai, vidi che l’affermazione era veritiera. E lo stesso ho poi notato di molte altre drastiche osservazioni provenienti dalla stessa fonte.
Il modesto ristorante nel quale entrammo era frequentato abitualmente da tre o quattro amici comuni che dividevano con noi opinioni molto precise ma niente affatto ortodosse sulla Guerra contro i Boeri che stava allora riportando i suoi primi successi di prestigio. Quasi tutti scrivevamo sullo Speaker, diretto da J.L-Hammond, e con una tale indipendenza di opinioni che non finirò mai di credere che proprio ad essa andiamo debitori di gran parte della più onesta critica politica odierna; lo stesso Belloc vi scriveva saggi di un’ironia oltremodo elusiva. Per capire come la sua intelligenza latina, specialmente profonda in materia di storia e di politica estera, facesse di lui un vero capo, è necessario valutare almeno un poco la singolare posizione di quel gruppo di Pro-Boeri. Eravamo una minoranza dentro una minoranza. In Inghilterra erano pochi quelli che onestamente disapprovavano l’avventura del Transvaal, ma anche fra quei pochi, in numero notevole, e forse nella maggioranza, vi si opponevano per motivi non solo diversi dai nostri, ma quasi opposti. Molti erano pacifisti, quasi tutti erano seguaci di Cobden; i più saggi erano sani ma nebulosi liberali i quali ritenevano a ragione che la tradizione di Gladstone fosse meno rischiosa dell’opportunismo dell’imperialismo liberale. Ma di noi, con termine più appropriato, si poteva dire che eravamo esattamente dei Pro-Boeri.
E cioè insistevamo nel dire che i Boeri avevano ragione di combattere, molto più di quanto insistessimo nel dire che avevano torto gli Inglesi di combattere. Per la pace cosmopolita avevamo quasi la stessa antipatia che nutrivamo per la guerra cosmopolita, e sarebbe stato difficile dire se disprezzavamo di più quelli che lodavano la guerra per il denaro che faceva guadagnare, o più quelli che biasimavano la guerra per la perdita di denaro che essa causava. Non pochi giovani d’allora si sentivano attratti da questo atteggiamento. F.Y. Eccles, studioso e critico di lingua francese, e forse uomo di cultura troppo sottile per giungere alla fama, era in possesso di ogni possibile dato classico da opporre a quel prussianesimo piratesco; lo stesso Hammond, con prudente magnanimità aggrediva sempre l’imperialismo come falsa religione e non soltanto come aperta frode; quanto a me, avevo le mie manie intorno al valore romantico delle cose piccole, ivi comprese le piccole nazioni. Ma fra noi Belloc entrò come un guerriero armato di sonante armatura. Recava con sé le notizie del fronte della storia; informava che le arti francesi si sarebbero potute di nuovo salvare per mezzo delle armi francesi; diceva che il cinico imperialismo non solo era da combattere, ma poteva essere combattuto e lo si stava combattendo; diceva che la lotta di strada in strada che per me era una favola dell’avvenire era per lui un fatto del passato. A molti altri usi il suo genio si applicava, ma ora voglio parlare di questo primo effetto che esso ebbe sui nostri ideali istintivi e a volte imprecisi. Ciò che egli introdusse nei nostri sogni fu la sua romana aspirazione alla realtà e alla ragione come informatrice dell’azione, e quando egli si affacciava all’ingresso portava con sé il senso del pericolo.
Vi era in lui un altro importante elemento che in quella crisi ebbe modo di farsi limpido. Per buon colmo d’ironia, in lui diverse cose erano in contrasto le une con le altre, e non soltanto nel senso umano ed ordinario del bene che va contro il male, ma nel senso di una cosa buona che si oppone ad altra pure buona. Il più che singolare e addirittura unico atteggiamento del nostro piccolo gruppo si riassumeva in lui esattamente in questo, nel fatto cioè che egli amava ed ama cordialissimamente l’Inghilterra non come un dovere, bensì come un piacere e quasi una debolezza, ma insieme aborriva non meno intensamente ciò che l’Inghilterra mostrava di voler diventare. Appunto a causa di questo, nella sua poesia compariva una specie di dubbio o incertezza che non può trovar posto nell’inglese vago e omogeneo; qualcosa che a volte diventava un misto di amore e di odio. Lo si nota, per esempio nel bell’intermezzo che rompe il felice canto di amicizia intitolato “Agli uomini di Balliol ancora nel Sud Africa”:

Già prima lo dissi, e lo ripeto ancora,

vi è stato un tradimento e una parola falsa,
e l’Inghilterra in preda alla feccia degli uomini,
e corruzioni e la rottura di un trattato.

(I have said it before, and I say it again,
there was treason done and false word spoken,
and England under the dregs of men,
and bribes about and a treaty broken)

Caratteristico dell’epoca il fatto che un settimanale altamente rispettabile e ponderato di offerse seriamente di pubblicare il poema purché venisse omessa quella strofa centrale. Tale conflitto di emozioni si mostra in misura ancor più concreta nel poema grandioso e misterioso intitolato “Il Condottiero”, in cui il fantasma di un nobile militarismo si fa avanti per rimproverare quello di bassa lega:

E dove era stata la disfatta oscena
era un esercito fermo e orgoglioso,
centomila uomini marciavano,
venti ventine di squadroni,
e dopo loro venivano i cannoni, e cannoni;
ma Ella procedeva avanti a tutti.

(And where had been the rout obscene
was an army straight with pride,
a hundred thousand marching men,
of squadrons twenty score,
and after them all the guns, the guns,
but She went on before)

A partire da quella che fu la nostra piccola rivolta, si può dire senza esagerazione che Belloc abbia condotto in seguito bene tre rivoluzioni, la prima rappresentata dal periodico Eye-Witness, diventato ora il New-Witness, fu il ripudio di tutti e due i grandi partiti parlamentari per la corruzione che praticano sistematicamente e fin nei dettagli; la seconda fu lo squillo di allarme di fronte all’enorme e silenziosa avanzata dello Stato servile il quale adopera come strumenti tanto i socialisti quanto gli anti-socialisti; e in terzo luogo, la sua recente campagna per istruire il pubblico intorno agli affari militari. E ogni volta occupò il posto direttivo che già aveva tenuto nel nostro piccolo partito di Pro-Boeri. Era l’uomo d’azione delle cose astratte, e a sostegno dell’audacia aveva la sua grande sobrietà. E’ appunto in questo, e forse in questo solo, che egli è essenzialmente francese, che appartiene al popolo il quale è il più prudente del mondo quanto ad individui singoli, e anche il più spericolato della terra nella sua essenza collettiva. Infatti una parte di lui è romantica, addirittura stravagante nel senso preciso del termine; ma si tratta della parte che è inglese. I francesi invece tengono da conto il soldino non perché la moneta di grosso taglio badi a sé, come dicono agli inglesi, ma perché faccia la pazza quanto vuole. Belloc è quasi materialista nei dettagli, allo scopo d’essere nei fini ciò che la maggioranza degli inglesi chiamerebbero un mistico, per non dire una mostruosità. E con ciò si trova perfettamente inserito nella tradizione del solo paese in cui le rivoluzioni hanno avuto successo. Appunto perché la Francia vuole compiere imprese ardite, le imprese non dovranno essere troppo ardite, mentre un inglese spericolato come Blake o Shelley si accontenta di sognarle. E quanto sia latina questa combinazione tra economia ed energia dell’intelletto lo si può vedere paragonando Belloc al suo grande precursore, il Cobbet, il quale condusse la guerra contro la stessa ricchezza e la medesima segretezza degli Wighs suoi contemporanei, e in difesa della stessa dignità umana e del medesimo patrimonio domestico. Ma il Cobbet, essendo soltanto inglese, si serviva di un linguaggio fantasioso anche parlando di cose pubbliche e serie, ed era travolgentemente romantico anche quando aveva semplicemente ragione. Ma lo stile di Belloc è sovente sobrio e violento soltanto nella sostanza. Vari paragrafi di accuse da lui scritti si potrebbero dire quasi incolori se non fosse per la dinamica del significato.
Probabilmente mi sono dilungato troppo su questa fase del mio amico, ma la ragione è che in essa appunto egli mi appare diverso da tutti e perciò dotato di una carica drammatica. Non ho parlato di quelle sue guide gloriose e fantastiche che si potrebbero chiamare i testi di perfetta scienza del vagabondare. Con essi egli si eleva al di sopra della terra insieme con quei poeti che Keats immaginava a cena con una celeste Sirena. Ma la sirena era inglese, come lo era anche Keats. E per quanto Hilaire Belloc abbia il nome francese, io credo che Peter Wanderwide sia inglese al cento per cento.
Non ho detto nulla della realtà più profonda di Belloc, cioè della religione, perché ciò supera l’importanza del presente discorso; e non ho detto nulla dei più recenti attacchi sferrati contro i lui dal principale trust della stampa, perché troppo meschini. Naturalmente vi sono molte altre ragioni che mi impediscono di trattare qui tali argomenti, compreso il motivo della mancanza di spazio; ma vi è anche una piccola ragione, che se non esattamente un segreto, è almeno un motivo di silenzio molto ovvio: io ho la certezza quasi assoluta che fra non molto la gente si chiederà: “Chi era mai questo signor Tizio con il quale pare che Belloc abbia intrattenuto delle conversazioni?”
(1929)

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