martedì 23 giugno 2009

Dal dott. Carlo Bellieni - 2

ROMA, domenica, 21 giugno 2009

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5. La sofferenza per il medico va combattuta e va anche “utilizzata” mentre la si combatte

Il dolore fisico va combattuto, così come la sofferenza. Ma talora, mentre si combatte, la sofferenza può paradossalmente anche essere sfruttata. Esistono infatti tre tipi di sofferenza. La prima è quella che nasce dalla distanza tra quello che abbiamo e quello che vogliamo (un dolore, la solitudine, una malattia sono ostacoli al desiderio di salute, vita ordinaria) e questa condizione, seppur dura, può essere sprone per la guarigione o per superare il momento difficile della vita. La seconda si crea quando ci si rende conto che quello che volevamo inizialmente è solo il preambolo alla ricerca di una felicità completa che non è soddisfatta da nessun risultato parziale, dunque è la distanza tra quello che volevamo e la nostra completa felicità; la qual cosa talvolta ci umilia, perché mostra che i nostri sforzi erano diretti a qualcosa che non è che parte di ciò che davvero vorremmo. Anche questa condizione può essere spunto di una crescita personale, in quella che viene definita “Post-traumatic growth” (v. Psychiatric Times 2004;21(4)), ovvero la crescita umana che avviene se il dolore viene accolto con umanità, quando si sveli per esempio la presenza di una malattia incurabile. Il terzo tipo di sofferenza invece è quella che viene dalla percezione della distanza tra quello che volevamo e quello che abbiamo ottenuto, cioè dalla coscienza che “più di tanto non si può” e genera depressione. Questo è il tipo di sofferenza più pesante, perché non è più in grado di guardare oltre, non può essere utilizzato per un possibile bene e si deve operare per portare il paziente oltre questa visione, tramite interventi sociali, medici e psicologici.

6. Anche per il cristiano la sofferenza è da combattere e da “utilizzare” mentre la si combatte

Per illustrare quanto ora detto, leggo un noto brano di S. Paolo (Rm 5,1-5) cercando di mostrarne alcuni tratti utili al nostro discorso. “Noi ci vantiamo [non demordiamo] anche nelle tribolazioni [nel dolore, sotto tortura: il tribolum era lo strumento usato per schiacciare il grano] ben sapendo che le tribolazioni [i dolori] producono pazienza [sofferenza, da ‘patior’: non interpreterei qui il termine pazienza come lo leggiamo oggi, perché non è assolutamente automatico che dal dolore venga la capacità di ‘portarlo’, anzi: penso che questa lettura sia più aderente a quanto intendeva l’Apostolo, perché il vantaggio non viene automaticamente dal dolore, ma dall’amore di Dio], la pazienza [sofferenza] una virtù provata [cioè mette a dura prova la virtù. Potrebbe anche essere spiegato dicendo che sopportare forgia il carattere, ma anche questo non sempre è vero, spesso si crolla] e la virtù provata la speranza [cioè quando la virtù è messa alle strette può sopravvivere solo con la speranza, cioè con la domanda a Dio]. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei vostri cuori [non delude perché lo avete già sperimentato quanto vi ama, se non lo aveste sperimentato non potreste saperlo]”.

D’altronde Cristo trasfigura il dolore umano, invitando ognuno a prendere la propria croce e seguirlo (Mt 16:24), che non significa scegliere una sofferenza a piacere; all’epoca in cui la croce non era una metafora ma uno strumento di tortura e morte che la gente vedeva per le strade, significava guardare in faccia e non fuggire il dolore presente nella propria vita (la propria croce), e dunque “prenderlo”, cioè farne un uso superiore a quello comune (la croce normalmente non si “prende”, perché è piantata a terra: solo chi non è comune – per Grazia - può “prenderla”), cioè combatterlo ma anche sfruttarlo per una strada redentiva che fa della sofferenza una misteriosa condizione: d’altronde, anche psicologicamente chi non lo combatte e non cerca di ritorcerlo per il bene, ma solo lo rifugge, vive in un’utopica atarassia, cioè la morte del cuore.

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BMJ - helping doctors make better decisionsSpecialists recommend counselling women on risks of childbirth after 35

Gli specialisti del Royal College of Obstetrics and gynecology hanno calcolato che nel decennio scorso l'età media delle donne che diventano mamme è aumentata di 50 giorni l'anno, il che vuole dire che nel 2050 faranno figli in media quando saranno più vecchie di 6 anni! E' un trend allarmante, perché più si è vecchie più si corrono rischi per la salute propria e del figlio (oltre ad aumentare la sterilità). Ma chi le avverte? E chi fa politiche per aiutarle a non aver paura di diventare mamme?

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