domenica 9 agosto 2009

Ragioniamo sulla vita. Senza maschere

Ragioniamo sulla vita. Senza maschere

Francesco D'Agostino

Non mi meraviglia il fatto che alcuni laicisti (primo tra tutti Stefano Rodotà, in un violento editoriale su "Repubblica" di ieri) tornino a tuonare contro chi vorrebbe «espropriare le persone del diritto di governare la propria vita».
Mi meraviglia che per argomentare questa loro peculiare (e fragilissima) visione del mondo continuino ad attaccare le gerarchie ecclesiastiche, continuino a evocare lo spettro del fondamentalismo, continuino a parlare di «falsificazioni di dati scientifici» (fuori le prove di queste falsificazioni!), continuino ad alludere a non meglio precisate intese tra il capo del governo e altissimi prelati, interpreti dell’intransigenza cattolica, continuino a sostenere che siamo ormai di fronte alla negazione dello Stato di diritto e soprattutto che continuino, evocando stravaganti complotti, a evitare un accurato confronto delle idee.
Riportiamo il dibattito nel suo giusto contesto.
Chi ignora che aborto ed eutanasia sono i temi bioetici in assoluto più scottanti e che la Chiesa se ne occupa per la sua pretesa di essere «esperta di umanità» (una pretesa innegabile, anche se fa rabbrividire i laicisti)?
La sostanza di tutte le questioni bioetiche (e in primo luogo dell’aborto e dell’eutanasia) non è confessionale, ma antropologica: per questo la bioetica è una prospettiva interdisciplinare, che ha bisogno di discussioni pubbliche che non escludano alcuno, e che è orientata alla tutela e alla promozione del bene umano, come bene di tutti, credenti e non credenti, uomini e donne, occidentali e orientali, minorenni e maggiorenni, sani e malati...
Nessun bioeticista di buon senso (e nessun prelato, ne sono assolutamente certo!) vuole «espropriare le persone del diritto di governare la propria vita»: su questo punto Rodotà e tutti gli altri laicisti possono tranquillizzarsi.
Ma ridurre la bioetica a una questione di «autogoverno sulla propria vita» dimostra la radicale astrazione illuministica dei laicisti: i "soggetti bioetici" possono anche essere soggetti "forti", impavidi, capaci di fronteggiare prognosi infauste e di prendere assennate decisioni in contesti terribilmente tragici; ma il più delle volte (come sanno benissimo coloro che fanno bioetica non nelle aule universitarie o scrivendo editoriali, bensì passando ore "al letto dei malati") sono soggetti deboli e fragili, dalla volontà confusa e incerta, che non rivendicano come loro diritto prioritario quello all’autodeterminazione, bensì quello a non essere abbandonati. Questo è il cuore della questione: non nascondere dietro l’esaltazione del principio di autodeterminazione una sostanziale legittimazione dell’eutanasia passiva.
I medici sanno benissimo che, dietro le (rarissime) richieste di essere aiutati a morire, c’è una richiesta indiretta ma evidentissima ( per chi vuole capire come davvero stanno le cose) di non essere abbandonati.
Si vuole una prova ulteriore di quanto detto? Riflettiamo senza pregiudizi ideologici sulla pillola Ru486. Lasciamo da parte gli aspetti strettamente clinici della questione (sulla pericolosità di questo farmaco la discussione scientifica è ancora apertissima). Sta di fatto che essa è stata progettata e prodotta per fare dell’aborto un’esperienza extra-ospedaliera, per dir così, "domestica", quindi radicalmente "privata".
Ma ha un senso bioetico "privatizzare" una delle esperienze più traumatiche cui può andare incontro una donna? La legge italiana, legalizzando l’aborto, non lo ha privatizzato, negando che esso possa essere utilizzato come modalità di limitazione delle nascite: la procedura che secondo la legge 194 va posta in essere, e al di fuori della quale l’aborto resta illegale, è esclusivamente "pubblica". Queste non sono questioni confessionali, ma antropologiche. Discutiamone apertamente e lasciamo stare espressioni roboanti come «diktat», «assalto», «crociata vaticana». Vogliamo tutti, dico tutti, ragionare laicamente sulle questioni della vita, e il primo requisito della laicità è la sobrietà, il rispetto per la verità delle cose, la disponibilità ad ascoltare le ragioni degli avversari, senza demonizzarle.
Non si fa un buon servizio né alla bioetica, né alla laicità autentica, alzando la voce oltre ogni misura, sottraendosi a un confronto sereno e onesto con problemi così laceranti.

© Copyright Avvenire, 7 agosto 2009

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