domenica 14 marzo 2010

Dal prof. Carlo Bellieni

di Carlo Bellieni

Su Repubblica del 10 marzo Stefano Rodotà spiega cosa è secondo lui la laicità. "La laicità si rivela un presidio contro la pretesa di qualsiasi potere di impadronirsi della vita" e fin qui ci troviamo d'accordo. Il problema nasce quando spiega cosa significa per lui laicità. "Laicità rinvia ad autonomia", scrive nel discorso tenuto in occasione del ricevimento del premio Laico dell'anno, "e questa si declina come autodeterminazione". E aggiunge: "sovranità e proprietà sono parole che non da oggi accompagnano la nostra definizione del rapporto col corpo, dunque con la vita tutta intera". La laicità per Rodotà si lega indissolubilmente al tema dell'autodeterminazione. Ma l'autonomia (auto-nomos = legge fatta da se stessi), o l'autodeterminazione sono realmente degli ideali? Sono raggiungibili? E sono l'ideale della laicità?

Decidere da sé sulla propria vita è un buon ideale, ma bisogna vedere fin dove questo "da sé" si spinge: il fatto è che la generazione attuale è triturata da un nemico più forte dell'ingerenza di Stato, chiesa o altro sulle sue decisioni: si chiama solitudine. Il problema principale oggi non è come liberare l'uomo dalle ingerenze esterne, ma come facilitare all'uomo l'incontro con gli altri, con la cerchia dei vicini, con l'affetto dei figli, con la solidarietà dello Stato. La gente vuol stare più sola e decidere nel proprio privato o desidera invece più calore umano, più aiuto nel momento del bisogno? Il grande dramma delle persone disabili oggi non è di non sapere come far valere il proprio diritto a morire, ma di come trovare un luogo per vivere. Il dramma delle poche persone che chiedono di morire, come mostra la letteratura scientifica con fior fior di ricerche, è che in buona parte si tratta di persone lasciate addirittura senza adeguata assistenza psicologica, cui se si ripristinano le migliori condizioni psico-ambientali il desiderio di morire si muta e retrocede. E la richiesta di aborto spesso nasce dalla solitudine, dalla assenza di un adeguato supporto sociale e affettivo: le donne oggi vogliono un maggior accesso all'aborto (quale donna italiana trova difficoltà oggi ad abortire?), o maggiori facilitazioni per avere figli? Che libertà è quella di chi è lasciato solo? Eppure sui mass-media pagine e pagine illustrano come reclamare i diritti di fine-vita (propria o del feto), ma pochissime come far valere quelli delle varie realtà emarginate e sole (donne povere, malati…). Dunque l'autodeterminazione assoluta non ci pare ai primi posti nei desiderata dei nostri contemporanei, che vorrebbero più umanità e più rapporti  e città vivibili e sostenibili.

L'autodeterminazione è attuabile? Pensare che le nostre decisioni (a partire dal tipo di studi che intraprendiamo, dal tipo di auto che compriamo, dai programmi TV che guardiamo o dal giornale che leggiamo) siano scelte davvero libere è difficile da sostenere. Viviamo immersi dentro messaggi mediatici fatti apposta per condizionare: professionisti sono pagati per studiare colori, slogan, materiali per suggestionarci, e alcuni arrivano a farlo in tutto, fino ad inventare malattie fittizie per convincere la popolazione di avere malattie inesistenti e comprare farmaci (è il fenomeno del ben noto disease mongering), e ci riescono. Ricordiamo più le musiche degli spot TV che un'aria cantata da Bocelli; abbiamo appena pubblicato uno studio in cui mostriamo che il potere della TV sui nostri riflessi è molto maggiore di quello che ha ascoltare un semplice racconto (European Journal of Pediatrics, in press), ad ogni angolo di strada vediamo cartelloni che inneggiano allo stesso-identico-immutabile stile di vita e saremmo liberi di decidere? Siamo davvero padroni o sovrani di come ci vestiamo, di quanti figli facciamo (i sondaggi mostrano che di figli le donne italiane ne vorrebbero molti, ma poi ne fanno 1, max 2)? E le nostre esperienze infantili di tristezza o gioia, forse non ci influenzano, non ci costruiscono, non ci creano schemi che ci porteremo dietro per tutta la vita? Ma se le scelte non sono libere, non abbiamo forse bisogno di un clima sociale che ci aiuti a non essere preda delle influenze socio-mediatiche che ci vogliono piegati ad una cultura in cui si vale solo se si produce? E l'unica chance di sopravvivenza è non restare isolati, facilmente schiacciabili e controllabili dai media e dalla moda.

Insomma, la laicità forse è qualcosa di più di un'impossibile autodeterminazione. E ci piace pensare che l'ideale laico sia invece un mondo solidale, non semplicemente tollerante, ma portatore della certezza che tutti sono una risorsa per gli altri. Laicità è la certezza che qualunque caratteristica o lavoro o malattia io abbia, qualunque etnia o religione io abbracci, io valgo e lo Stato ha l'obbligo di aiutarmi. Certo esistono dei limiti all'intervento dello Stato e questi sono stati mostrati in varie occasioni: non si deve imporre una religione, non si deve violare il diritto delle minoranze, non si deve usare un trattamento terapeutico quando è inefficace o intollerabile per il paziente: certamente. Ma lo stile laico viene un attimo prima: riconoscere che l'ideale umano è un ideale sociale, quello per cui negli anni '60 teoricamente si erano creati i consultori familiari, per cui esiste un sistema sanitario gratuito e a libero accesso, per cui si è creato un sistema educativo che non lascia fuori nessuno in base al censo.

Lo stile laico è partire dal desiderio reale della persona, che si sviluppa in un confronto umano, non da quello espresso in un momento di disperazione o solitudine; è partire dai dati della ricerca scientifica che da anni ha ben analizzato le dinamiche della persona che soffre; è partire dalla lotta al dolore, ancora arretrata in molti aspetti, dalla ricerca terapeutica per le disabilità mentali oggi ancora troppo trascurate; è partire dall'imperativo kantiano di non trattare nessuno come un mezzo, fosse anche un embrione o un vecchio parkinsoniano. Questo stile apre ad un laicismo solidale, del quale abbiamo tutti bisogno e che ci piace di più che quello autodeterminista.

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