lunedì 22 marzo 2010

IL CASO/ La Gran Bretagna discrimina i cristiani e si affida ai tribunali islamici


da Il Sussidiario

Gianfranco Amato

lunedì 22 marzo 2010

Hamilton Burns WS, Solicitors & Solicitor Advocates, è il primo studio legale britannico specializzato in diritto islamico. L’iniziativa è partita dalla Scozia, Glasgow per la precisione, e rappresenta un ulteriore allarmante segnale della crescente diffusione della sharia nel Regno Unito. Non tutti sanno, infatti, che proprio in virtù di una legge varata quattordici anni fa (Arbitration Act 1996) l’applicazione stragiudiziale della sharia su questioni attinenti al diritto di famiglia (divorzio e custodia dei figli), e su questioni economico-finanziarie, è oggi pienamente riconosciuta in Gran Bretagna.

Proprio a seguito di quella legge sono sorti i Muslim Arbitration Tribunal (MAT), le cui decisioni hanno valore legale al pari delle sentenze emesse dai tribunali ordinari di Sua Maestà. Sono attualmente più di un’ottantina (ma continuano ad aumentare in maniera esponenziale) le “corti islamiche” giudicanti su materie che sono, comunque, lasciate alla libera disponibilità delle parti.

Il punto è che a tali arbitrati stanno sempre più ricorrendo anche non musulmani, attratti dall’informalità del relativo procedimento, ritenuto “less cumbersome” (meno gravoso) rispetto al sistema giudiziario britannico. Ad esempio, la sharia tiene conto anche di semplici accordi verbali su questioni per le quali la legge inglese prescrive come obbligatoria la forma scritta.

I non musulmani ricorrono ai Muslim Arbitration Tribunal quasi esclusivamente per questioni di carattere patrimoniale, e i loro contenziosi rappresentano il cinque per cento dei casi affrontati da quei particolari organi giudicanti. Ciò che appare incredibile in questa vicenda è la sottovalutazione del fenomeno da parte degli addetti ai lavori. Anzi, due anni fa il barone Nicholas Phillips of Worth Matravers, che ricopre la prestigiosa carica di Lord Chief Justice ed è uno dei più autorevoli magistrati inglesi, parlando in una moschea di Londra, non esitò ad affermare che, secondo la sua opinione, alcune parti del sistema legale islamico potevano benissimo essere utilizzate per dirimere questioni tra musulmani britannici.

L’illustre giurista non vedeva alcuna ragione al mondo perché i principi della sharia non dovessero essere utilizzati per regolare in via compromissoria contenziosi legali. In realtà non si è tenuto conto di due fattori niente affatto secondari. Il primo è che questa forma di giustizia alternativa, capace di attirare sempre più anche individui non musulmani, rientra comunque nella prospettiva di conversione tipica dell’Islam.

E’ pur sempre una forma culturale di espansione che riesce oggettivamente ad avere una sua presa, soprattutto in chi oggi – e sono molti purtroppo in Gran Bretagna –, avendo completamente smarrito la propria identità, è perennemente in cerca di un quid che riesca a definirlo. Fosse anche la proposta religiosa di Maometto.

Il secondo fattore sottovalutato è costituito dalla condizione della donna. Non è un caso che la notizia dell’iniziativa da parte dello studio legale di Glasgow abbia scatenato la reazione di Maryam Namazie, portavoce dell’associazione “One Law for All” (Una legge per tutti) che da anni promuove una campagna anti-sharia.

Maryam Namazie ha ribadito, parlando proprio a proposito dello studio Hamilton Burns WS, quanto il diritto islamico sia «antitetico rispetto alle leggi per cui hanno duramente combattuto e vinto i movimenti sociali progressisti, in particolare nell’ambito del diritto di famiglia», precisando, inoltre, che «l’applicazione della sharia in campo civile si pone in perfetta sintonia e continuità culturale rispetto alla stessa legge adottata in campo penale nei Paesi islamici, quella che prevede, tra l’altro, pene corporali come la lapidazione, l’amputazione, la fustigazione».

Sempre a proposito dell’iniziativa degli avvocati scozzesi dello studio Hamilton Burns WS, Joshua Rozenberg, uno dei più noti commentatori britannici in ambito legale ed una delle rare voci che attualmente mettono in guardia l’opinione pubblica sui rischi della diffusione della sharia nel Regno Unito, ha tenuto a precisare: «Per la legge islamica una donna non è considerata uguale all’uomo. Per cui si può arrivare al paradosso che una donna britannica sia trattata diversamente a seconda che a decidere sia un tribunale islamico o una corte laica». «Senza parlare del rischio», ha continuato Rozemberg, «che le donne musulmane possano non essere libere di scegliere ed essere, invece, fortemente condizionate dalla comunità ad adire un Muslim Arbitration Tribunal, anziché un tribunale ordinario». La questione mi ha particolarmente colpito. Anche perché ero curioso di conoscere quale tipo di consigli legali lo studio Hamilton Burns WS avrebbe fornito ai clienti islamici in materia di diritto di famiglia.

Sono così riuscito a recuperare le norme oggi applicate dai Muslim Tribunal Arbitration, peraltro facilmente accessibili anche online e comunque raccolte in diverse pubblicazioni, tra cui quella di Dennis MacEoin, edita nel febbraio 2009 per conto della londinese Civitas: Institue for the Study of Civil Society. Ne è venuto fuori un interessante florilegio.

Ad esempio: «una donna musulmana non può, in nessuna circostanza, sposare un uomo non musulmano, a meno che questi non si converta all’Islam, e nel caso tale regola venisse violata, alla donna verrebbe sottratta la custodia del figlio, a meno che non risposi un uomo musulmano»; «la moglie non può rifiutare di concedersi sessualmente ogni volta che il marito lo pretenda» (ma non vale il contrario); «una donna non può più convivere col marito se questi dovesse abbandonare l’Islam»; «i non-musulmani possono essere privati dei propri diritti in caso di successione»; «una donna non ha alcun diritto patrimoniale in caso di divorzio»; «la sharia deve comunque prevalere sui giudizi delle corti britanniche»; «i diritti sulla custodia dei minori possono differire da quelli previsti dalla vigente normativa britannica in materia»; «sottoscrivere assicurazioni per i musulmani è proibito, anche se imposto dalla legge statale»; «non esiste alcun obbligo di registrare un matrimonio, nonostante quanto prevedano le leggi britanniche»; «un avvocato musulmano ha il dovere morale di ignorare una legge del Regno Unito quando questa contrasti con i principi della sharia»; «una donna non può lasciare la propria abitazione senza il consenso del marito» (cosa che, peraltro, potrebbe integrare il reato di sequestro di persona); «l’adozione legale è proibita»; «una donna non può avere la custodia dei propri figli una volta che compiano 7 anni (per i maschi) e 9 anni (per le femmine)»; «una donna non può sposarsi senza la presenza ed il permesso di tutore maschio»; «un figlio illegittimo non può ereditare dalla linea paterna»; e così via.

Resta l’amarezza per la situazione sempre più schizofrenica in cui vive la società britannica. Da una parte vi è una sorta di odioso accanimento discriminatorio nei confronti dei cristiani e dall’altra una pavida accondiscendenza nei confronti della sempre più potente e temuta comunità islamica. Inimmaginabile sarebbe stata la reazione dell’anticlericale ed iperlaicista Terry Sanderson, presidente della National Secular Society, o dell’ateissima Polly Toynbee, presidente della British Humanist Association, se si fosse solamente ipotizzata l’idea di creare dei Christian Arbitration Tribunal, nei quali la regola fosse che «un avvocato cristiano ha il dovere morale di ignorare una legge del Regno Unito quando questa contrasti con i principi del diritto naturale». Apriti cielo!

Un’altra grave contraddizione di questa fragilissima società ormai alla deriva, emerge dal fatto che mentre si rasenta il ridicolo nell’esasperata esaltazione del principio di parità tra uomo e donna, si tollera, attraverso un connivente silenzio, il modo con cui vengono trattate le donne nei Muslim Arbitration Tribunal. Proprio nella patria del politically correct.

Solo pochi giorni fa, la House of Commons, su proposta di Harriet Harman – considerata un’icona dei diritti per le donne –, ha approvato con 206 voti favorevoli e 90 contrari, l’abolizione dal vocabolario parlamentare della parola “chairman” (presidente), ritenuta sessista, e la sostituzione con quella più neutra di “chair”. Le femministe hanno esultato per la grande conquista. Ormai il senso del ridicolo ha ceduto alla malinconia della pateticità. Che tristezza!

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