giovedì 24 marzo 2011

Il vescovo cattolico di Tripoli: "Era meglio la mediazione che tutti stavamo tentando". Da Il Foglio del 23 Marzo 2011

Vescovo sotto le bombe: “Era meglio la mediazione che tutti stavamo tentando”. I dubbi del vicario a Tripoli sui raid
23 marzo 2011 -


“Mi fanno ridere coloro che dicono che l’intervento militare in Libia è per fini umanitari. Buttare bombe per più di cinque ore su una città inerme è per fini umanitari? Ma dove?”.

E’ lapidario nel suo giudizio monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, veronese, Vicario apostolico di Tripoli. Ancora stanco dopo una notte insonne “passata a contare le bombe e i razzi che dalle dieci e trenta della sera fino alle tre della mattina gli aerei hanno sganciato sulla città”, Martinelli così commenta al Foglio la miopia di coloro che ritengono che siamo di fronte a un attacco legittimo. Dice: “Di legittimo c’era soltanto la mediazione che tutti qui stavamo cercando di mettere in campo perché non si arrivasse alla guerra civile. Da fuori Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e tutti coloro che stanno partecipando a questo attacco dovevano soltanto accodarsi a questo nobile tentativo per cercare di arrivare a una soluzione il più possibile condivisa. E invece si è deciso altrimenti e soprattutto con scarso tempismo. Perché? Mi domando: fino a quando andranno avanti a bombardare? Gheddafi non è intenzionato a fermarsi e non si fermerà. Non è il tipo che cede, e non cederà. E coloro che ci bombardano faranno altrettanto? Andranno avanti a oltranza? Fino a quando?”.

Monsignor Martinelli è in Libia dal 1985. Ieri ha apertamente suggerito che ciò che serve è una tregua che consenta di esplorare ogni possibile strada negoziale. E che “l’Italia può ancora fare un passo indietro, un gesto di riconciliazione”. Quanto alla condizione della chiesa cattolica, racconta che “nel paese ha sempre avuto continui e ripetuti contatti con Gheddafi e con le istituzioni in generale. Abbiamo sempre goduto della massima libertà di espressione. Non ci è mai successo nulla. Abbiamo avuto contatti buoni con tutti i rappresentanti religiosi qui presenti. Fino a pochi giorni fa noi cristiani eravamo una piccola comunità di circa centomila persone in Libia, se contiamo non soltanto i cattolici ma anche gli ortodossi, gli anglicani e altre comunità protestanti. A un certo punto sono sorti dissidi politici (e non religiosi) interni al paese. Le varie fazioni si stavano fronteggiando, anche aspramente. Ma c’era ancora spazio, molto spazio secondo me, per mediare. Certo, serviva la migliore diplomazia, ma si poteva fare. Adesso, invece, tutto è immensamente più difficile e complicato”.

Sì è complicata anche la situazione della comunità cristiana in Libia: “Qui i cristiani sono tutti fuggiti. O meglio, quasi tutti. Molti congolesi, etiopi ed eritrei sono costretti a rimanere nel paese per l’impossibilità di rientrare nei loro. Per alcuni rifugiati si è aperto un varco verso la Tunisia, ma qui ancora c’è gente. Soprattutto infermieri e medici filippini. Restano come me. Perché sentono che è giusto non lasciare la popolazione. Sono molto coraggiosi. Restano ma rischiano grosso, lo sanno bene. Rischiano che una bomba dall’alto li spazzi via. Un intervento esterno non era voluto da nessuno. Forse alcuni ragazzi lo desideravano perché in loro è più forte l’idea del cambiamento che può avvenire tramite un colpo di spugna. Ma in generale nessuno si illude che gli aerei stranieri cambieranno in meglio la situazione”.

E’ difficile valutare se la parole di Martinelli porteranno a un qualche ripensamento della linea tenuta fino a oggi dalle gerarchie della chiesa a Roma. In generale in Vaticano prevale grande preoccupazione ma insieme si ritiene che l’intervento, se davvero serve ad accelerare l’avvento di una nuova pace, sia in qualche misura legittimo. Dice Martinelli: “Non entro nel merito di questo giudizio. Penso però che la guerra non risolve nulla. Non so come andrà a finire. I libici sono sconfortati. Questi attacchi risvegliano in loro ricordi molto brutti. Ripeto: occorre fermare le armi e avviare subito una mediazione per risolvere la crisi in modo pacifico. Fino a pochi giorni fa tutto sembrava diverso. Avevo festeggiato il 150° dell’Unità d’Italia con il personale dell’ambasciata e del consolato. Il giorno dopo l’ambasciatore mi ha telefonato per dirmi che aveva ricevuto l’ordine di partire immediatamente. Io invece ho preferito rimanere. Non lascerò mai la Libia, finché vivo. Questa è la mia chiesa”.

Pubblicato sul Foglio mercoledì 23 marzo 2011

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