venerdì 8 giugno 2012

Con luci e ombre: da Verga a Chesterton, da Manzoni a Kafka (di Marco Testi)


Il grande tema della famiglia è stato importante anche in letteratura. Nonostante tra fine Ottocento e primo trentennio del Novecento si fosse sviluppata una narrativa corrosiva e trasgressiva rispetto ai valori tradizionali, la famiglia restava uno degli elementi con cui, volenti o nolenti, bisognava fare i conti. Già nel positivismo era possibile toccare con mano questa contraddizione: il colto e laicissimo Verga rimpiangeva nei "Malavoglia" il nucleo salvifico della famiglia, che lui vedeva – con rimpianto – in decadenza. Ma chi se ne vuole andare verso una modernità edonistica rimane, come 'Ntoni, solo e senza radici. Alessi, che ha recuperato la grande casa familiare, si salva. Anche nel suo scapigliato periodo milanese, il siciliano aveva celebrato la necessità di riscoprire i valori della famiglia contro le sirene dell'avventura fine a se stessa e della bellezza sterile, come nel romanzo "Tigre reale", in cui il protagonista dopo la stagione dell'amore che brucia ogni cosa, compreso se stesso, torna pentito a moglie e figlio ammalato. Ma anche altrove voci importanti si levavano a contestare l'equazione famiglia-morte dei sentimenti-fine dei valori. Per Chesterton, ad esempio, la famiglia non è semplicemente il nido verghiano o il riparo dopo la tempesta, che potrebbe sembrare un po' utilitaristico ed egoista: per lo scrittore inglese famiglia significa compimento e nello stesso tempo inizio, esattamente come in Manzoni, di cui parleremo tra poco. In Chesterton il messaggio occupa uno spazio più ampio di quello familiare, penetra fino alle radici dell'esistenza: la scelta di una persona accanto è la scelta di una vita. Non tutti hanno percepito il valore iniziatico di questo percorso: la mancanza, il rischio della noia, la dedizione, l'assoluto stare fermi di fronte a ogni tipo d'intemperie, da quello fisico a quello psichico, sono gli elementi che formano il saggio, l'asceta, colui che ha abbandonato ogni cosa per la foresta, il deserto, la preghiera o la cura degli altri. Non vedo perché – sembra dire il creatore di Padre Brown –, la gente non debba riconoscere che questa ascesi è possibile anche nella pazienza, nella sopportazione, nel riconoscimento dei propri limiti, nel rispetto e nella cura dell'altro che dovrebbero esserci nel legame nuziale. La modernità di questo pensiero è lampante ma misconosciuta, perché smaschera i luoghi comuni esotici e pone la possibilità del cammino iniziatico nella cura per l'altro. Alla fine della grande ricerca nel niente, c'è di nuovo un inizio nella luce, e questo inizio, come l'inglese scrisse in "L'uomo che fu giovedì", ha come tappa l'unione con l'altro: "C'è una forza nella radice che affonda, c'è del buono nell'invecchiare. Abbiamo trovato finalmente le cose comuni, e le nozze e un credo". E veniamo all'odioso-amato Gran Lombardo, il creatore di Renzo e Lucia (pochi sanno che il padre e la madre di Caravaggio si chiamavano Fermo – come Renzo nella prima stesura del romanzo – e Lucia): di stupidaggini sui "Promessi sposi" ne sono state scritte tante, ma non molti ne hanno colto l'indicazione fondamentale, che è quella di rappresentare un inizio, e non una fine. Il romanzo termina con l'inizio di una famiglia, e questa famiglia è come tutte le altre, pettegolezzi, invadenze, fatica. Eppure i due promessi ne hanno vissute di avventure, ne hanno passati di rischi mortali pur di arrivare a quei pettegolezzi, a quelle invadenze, a quella fatica.
E allora, qual è il succo? Che il matrimonio è un percorso iniziatico, che mette alla prova la fede, la capacità di mantenere gli impegni, la pazienza. Quello che cerchiamo nell'eremo o nel volontariato è anche lì, in quelle case dove la bellezza non finisce, ma si trasforma, dove vengono messi alla prova i nervi (ma anche nel deserto viene messa alla prova la pazienza del santo). La battaglia vera inizia dove finisce il romanzo, perché l'eroismo del superamento degli ostacoli per ritrovarsi insieme lascia il passo all'eroismo di condividere quel desiderio anche quando le cose non vanno, quando tutto sembra perduto. Ma anche là, dove la letteratura sembrava decretare la fine dello spazio familiare, come in Kafka, si legge la spasmodica tensione verso il recupero del senso, come s'intuisce nelle dolenti parole della Lettera al padre, in cui si coglie la struggente nostalgia per qualcosa che è già stato nostro e che ci è stato tolto. Per Kafka il paradiso familiare è perduto per un eccesso di autoritarismo che ha schiacciato l'autonomia filiale; eppure egli scrive, cerca un contatto, lasciando aperta la porta al ritorno. È la testimonianza che non è possibile negare, anche da un punto di vista meramente biologico, la centralità di un'istituzione che raggiunge le scaturigini medesime dell'antropologia. Il problema, sembra suggerire Kafka, non è la famiglia, sono i comportamenti umani.

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